Andiamo in pace o siamo in guerra?

Riuscirò a rimanere fuori dalla retorica?

Andiamo al sodo, allora e scopriamo le carte: andiamo in pace o siamo in guerra?

Passata da poche ore la Pasqua, intrisa di pastiera e acqua santa e del grande messaggio di Pace che l’antico rito porta con sé, tu sei (noi tutti siamo) nella pace?

Io no. Lo confesso. Mi sono da tempo dichiarata e impegnata ad essere donna di pace eppure il mio animo vacilla, che sono stanca di contare morti.

Ma sono assai più stanca di sentirli distinguere a seconda della religione di appartenenza. O del luogo in cui la morte li ha trovati.

Non credo più alla buona fede di chi riferisce le notizie. Non può esserci buona fede nell’ignoranza o nel diffondere parzialità.

Dilaniati vuole dire dilaniati. Orrore vuole dire orrore. Sono concetti senza diminutivi. E senza colore.

Ovunque e per chiunque scappare ha l’odore forte della paura. Quella che ti fa affrontare centinaia di chilometri a piedi con un bimbo o con un gatto in braccio, con la speranza di portarlo in salvo. Quella che ti fa guadare un fiume di notte che alle spalle ancora esplodono le case. Quella che ti fa guardare in macchina di un fotoreporter ma tu gli cercavi gli occhi e la pietà, che eri solo andato ad una partita di pallone, o a teatro, o all’aeroporto quando il boato ti ha tolto l’udito, la vista, le lacrime, il sangue.

Non accettare i fatti per quello che sembrano. Dietro c’è sempre altro.

Nemmeno una fotografia, e tu lo sai bene, basta a raccontare la verità. Quindi non illuderti nemmeno di questo. Scatta e documentati. Fai fotografie e chiedi (il permesso e perché), guarda le foto degli altri e abbi dubbi. Non coltivare certezze perché ogni guerra è fatta in nome di una certezza. Non distinguere i morti e i feriti di un conflitto a seconda dell’etnia, della religione, del genere perché le guerre si fanno ai vivi distinti proprio così.

Siamo tutti differenti, amico lettore che fotografi ogni sguardo perché unico, lo sai già bene eppure ti dico non separare. Apprezza e ritrai semmai i segni distintivi ma fallo solo a patto di rispettare ogni singolo particolare.

La fotografia, come la bicicletta, come la marmellata regalata ai tuoi vicini, può essere strumento di pace o di guerra. Dipende da te.

Ci hanno insegnato che siamo tutti uguali e siccome non è vero, in molti quando lo scoprono diventano guerrieri. Diciamocelo, invece, che siamo tutti differenti e che proprio per questo siamo bellissimi e tutti degni di pace.

 
Nunzia mani

 

(m.p.)

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Un pensiero su “Andiamo in pace o siamo in guerra?

  1. Scatta e documentati!
    Da neofita ultimamente preferisco documentati e scatta, altrimenti scarta (quel genere di fotografia). Una fotografia riesce a raccontare agli altri se in primis a te dice qualcosa e soprattutto occorre riuscire a far sorgere un dubbio. Perché l’hai scattata? (Anche se a molti interessa solo il come). La parte del chiedere il permesso si quella mi piace molto é un gran bell’argomento, é facile correre dietro qualcuno o rubare una scena a distanza, era un concetto che mi rispecchiava appena “nato fotograficamente”, col tempo ho imparato a rispettare chi c’é dall’altra parte, ho imparato a pensare che magari quella persona non ama essere fotografata, ad invertire le parti, Ho imparato anche che quando con una persona ci parli e la osservi mentre si racconta riesci a portare fuori quello che prova, rubare una foto magari ti fa ottenere una bella foto ma finisce lá, é giusto provare a fare anche una buona foto…
    I dubbi, quelli si che sono interessanti, dubitare ed incuriosirsi; dovremmo vivere cosí. La fotografia puó essere, magari é, ingannevole. La fotografia mente anche quando racconta tutto.
    Per quel che riguarda il titolo é un bel dilemma, a me non interessa quello che fanno gli altri se scelgono la guerra o vanno in pace sará un loro percorso, mi piace indossare mille maschere un pó influenzato anche da Pirandello mi lascio vedere dagli altri per quello che vogliono vedere.
    ….Per fortuna non voglio piacere a tutti.

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