Perché fotografiamo strutture ormai in disuso, che combattono con la vegetazione, con la ruggine, con i rifiuti?
Perché li guardiamo come monumenti, come cattedrali, perché ne apprezziamo ora lo stile architettonico?
Sarà forse per l’assenza dell’uomo?
Sarà forse per il fermarsi del tempo?
Forse sarà per un bisogno di ricollocare noi stessi in uno spazio-tempo diverso. Dove tutto ci ridimensiona o meglio ridimensiona il nostro ruolo nella società.
Se le nostre grandi opere, un tempo così “operose”, periscono, la consapevolezza della nostra umanità rinasce prepotente.
La fotografia cosiddetta di Archeologia Industriale, rimanda continuamente il rapporto tra le nostre idee e le opere che produciamo, il nostro pensiero e le nostre azioni.
Fotografiamo quasi sempre strutture che sono state utili, produttive, perché sono quelle che spesso muoiono e non sopravvivono a quelle che sono state fatte per il gusto o il capriccio dell’uomo.
L’archeologia industriale ci accomuna in un destino di cambiamento ma diventa per molti di noi un momento catartico, un momento in cui prendiamo consapevolezza sia della nostra caducità che della nostra capacità di sopravvivenza.
Luigi Grieco